Ultimo incontro dei quattro previsti del Centro di Medical Humanities della facoltà.
Argomento:Antropologia della morte.
Si,non è un tema leggero,e neanche tanto allegro in effetti...ma dei tre che ho seguito è stato quello che mi ha colpita di più,per il modo in cui è stato trattato,per la delicatezza e la profondità dell'argomento,per la capacità dei relatori d'integrare l'ieri e l'oggi,il passaggio da una morte "addomesticata",in cui si accettava serenamente questo evento come parte naturale della vita,alla morte "medicalizzata" di oggi,morte che è diventata quasi un taboo,io stessa affermando di essere persino affascinata da questo argomento rischio di passare per una mezza matta,perchè sulla morte non si scherza,della morte non si parla,lo stesso termine ha così tanti sinonimi più dolci contemplabili che Santo cielo!Perchè se siamo vivi dobbiamo pensare alla morte!Cambiamo discorso!
...E invece no.Credo sia estremamente importante,soprattutto per noi studenti di medicina,riflettere su questo argomento:Verrebbe naturale pensare che una volta assodato che il paziente è destinato a morire,e non c'è nient'altro da fare,che il compito del medico sia finito,il grande guerriero che combatte ogni giorno contro la morte rende le armi e passa al nuovo caso...niente di più falso,anche in questo momento estremo si aprono prospettive e possibilità inimmaginabili,in cui il medico può e deve fare la sua parte...:Migliorare la "qualità della morte" del paziente.Essere in grado di relazionarsi e comunicare con i familiari della persona malata.Non lasciare il malato "terminale" da parte,ma "prendersi cura" di lui,anche se per il poco tempo che gli rimane.
Riassumere l'intera conferenza sarebbe impossibile,gli interventi sono stati tanti e le questioni toccate molteplici,dal rapporto medico-paziente,all'incapacità dei medici di oggi di "comunicare" e collaborare,la questione del testamento biologico,del limite fra cura e accanimento terapeutico...e io stessa non saprei rendere giustizia a quanto è stato detto,ho ancora la mente fresca di riflessioni,sensazioni ed emozioni confuse.
Sono questioni molto più grandi di me,eppure sono in grado di starci tutte in questa mia piccola vita,nella vita di tutti noi,più o meno direttamente.
"Come possiamo affrontare noi medici la difficile realtà della morte,come approcciarci in situazioni così delicate,qual è la risposta?"-hanno chiesto a un certo punto.E il relatore ha risposto,molto umilmente e con semplicità:
"La risposta credo sia nella compassione."
Ho sorriso.Non me l'aspettavo.
Compassione.Curare nel senso di "prendersi cura".Accettare i nostri limiti di uomini,valorizzare il nostro essere uomini e non macchine biologicamente e chimicamente funzionanti che dopo un po' si guastano,si rompono.Tecnologia amica,ma non padrona.Migliorare la qualità della vita,migliorare la qualità della morte.Tutto questo e molto di più.
Tenete d'occhio le attività del Centro Medical humanities,aiutano a dare uno spessore e degli spunti di riflessione per la nostra professione che nessun libro di anatomia o di istologia potrà darci.
Sono completamente d'accordo!Mentre ascoltavo gli interventi dei relatori mi è venuta in mente la dottrina di Epicuro, che si focalizza sul fatto che non è tanto la morte che ci turba ma la paura di questa....paura infondata però...
RispondiEliminaEpistola a Meneceo, 124-127
1 [...] Abítuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere piú. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il piú terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono piú. Ma i piú, nei confronti della morte, ora la fuggono come il piú grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i piú abbondanti, ma i migliori, cosí del tempo non il piú durevole, ma il piú dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c’è nella vita, ma perché uno solo è l’esercizio a ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice:
“bello non esser nato, ma, nato, passare al piú presto le soglie dell’Ade”.
[...]
2 Ancora, si ricordi, che il futuro non è né nostro, né interamente non nostro: onde non abbiamo ad attendercelo sicuramente come se debba venire, e non disperarne come se sicuramente non possa avvenire.
Ilaria,non sai quanto sono d'accordo con te!
RispondiEliminaOgni volta che mi sento più fragile prendo in mano i libri di Terzani, li consiglio tutti anche a te, perchè mi fanno sentire veramente tanto forte! La morte infondo fa parte della vita, è il suo termine naturale e prima o dopo ci dovremo confrontare tutti.
Bel post,davvero!
complimenti ila, davvero un bel post, che fra l'altro tocca uno dei temi con cui, purtroppo, dovremo confrontarci spesso, come medici e come persone. Credo che la risposta del realtore al come si possa affrontare la realtà della morte sia davvero l'unica possibile. Di fronte a una cosa come questa, così tanto più grande di noi, l'unica cosa che concretamente possiamo fare è "compatire" nel senso più letterale del termine, cioè "soffrire con" la persona che abbiamo accanto, senza pretendere di capire per forza la sua sofferenza, ma semplicemente offrendo una spalla su cui piangere. Anche perchè spesso certe cose non si possono capire. In fondo ognuno vive la morte e la sofferenza a modo suo e l'ultima cosa di cui ha bisogno una persona che soffre è qualcuno che si intrufoli nella sua vita imponendo un aiuto non richiesto.
RispondiEliminaCredo comunque che affrontare questi temi sia per noi futuri medici un'occasione, tanto prima o poi, per quanto cerchiamo di scappare, dovremo confrontarci con questa realtà e dovremo essere all'altezza della situazione, per non essere solo delle macchine che aggiustano altre macchine, ma persone che si prendono cura di altre persone!
@Martina:per quanto ami la filosofia,questa visione di Epicuro mi ha sempre lasciata un po' perplessa...logicamente non fa una piega :) ,peccato che la nostra mentalità è ben lontana dalla sua,il distacco dalle passioni che lui predicava per stare bene sarebbe la "morte" per noi oggi,senza contare che non è solo il dolore e l'ignoto della morte che ci fanno paura,ma anche quel "non esserci più",il timore di essere "cancellati" dalla storia...tant'è che anche in passato si faceva di tutto per perpetuare il proprio ricordo.Grande citazione comunque!:)
RispondiElimina@Seri:Metto in lista Terzani!;)
@Eleonora:""compatire" nel senso più letterale del termine, cioè "soffrire con" la persona che abbiamo accanto, senza pretendere di capire per forza la sua sofferenza"...hai proprio ragione,ognuno la vive a modo suo.